E poi, arrivò il 68!
di Tito Giraudo
L’amico Massimo Biondi ci fornisce un quadro del pre-sessantotto, visto da un ragazzo dell’epoca probabilmente non politicizzato, sottolineando tutti gli aspetti positivi di quella rivoluzione dei costumi. Massimo termina dicendo: e poi arrivò il sessantotto……
Quella mattina che gli studenti torinesi occuparono Palazzo Campana ero alla Fiom che non era distante dalle facoltà umanistiche. Il mio vice entrò in ufficio dicendo: gli studenti hanno occupato Palazzo Campana, ci sono anche le ragazze che si fermano la notte, mi sa che si scopa!
Così cominciò per me, ventisettenne funzionario sindacale, il sessantotto. Confesso che a parte il ludico, non colsi gli aspetti politici che avrebbero portato ad avvenimenti che non solo sfoceranno nel terrorismo ma, contemporaneamente, forniranno a questo paese schiere di intellettuali e giornalisti che lo influenzeranno fino ai nostri giorni.
Iniziammo a renderci conto della politicizzazione sessantottina, un anno dopo, quando fuori dalle fabbriche ci trovammo schiere di figli e figlie di papà impegnati ad indottrinare la cosiddetta “gloriosa classe operaia”.
Torino, non fu certamente l’unica grande città a vivere la contestazione studentesca. Fu però quella che maggiormente contribuì nello spostare la linea delle rivendicazioni su posizioni prettamente ideologiche.
A quel tempo, poco sapevo di Storia, non colsi quindi la matrice ideologica cui si ispiravano quei ragazzi, molti dei quali militavano in quella federazione giovanile socialista che avevo diretto per qualche anno.
Più colti di me, avevano assorbito il messaggio post resistenziale di una sinistra che invece di indagare sulle vere cause dell’origine del fascismo, era impegnata a glorificare se stessa e i suoi miti. Uno di questi, trasversale in tutta la sinistra, fu il Gramsci dell’Ordine Nuovo.
Invece di indagare sul ruolo effettivo che ebbero quelle idee nella sconfitta, non solo sindacale ma anche politica, si preferì rilanciare le balzane teorie degli ordinovisti sulla centralità della classe operaia totalmente incuranti di ciò che era avvenuto nel Comunismo Sovietico. Di conseguenza, dagli atenei universitari schiere di ragazzotti alternarono: assemblee infuocate e antidemocratiche, cortei violenti e sit-in fuori dai cancelli delle fabbriche, soprattutto della Fiat.
I primi ad essere intolleranti con il movimento studentesco furono i Comunisti che non gradivano l’aggiramento a sinistra, soprattutto perché i sessantottini, delusi dal paradiso sovietico presero ad inalberare il “libretto rosso” di Mao.
Si verificò uno strano fenomeno: coloro che erano l’origine ideologica di quelle idee, non dialogarono con il Movimento, sospingendolo fuori dal recinto del Partito e quindi contribuendo alla radicalizzazione delle frange più politicizzate che entreranno in clandestinità trovando, probabilmente, ispirazione dalla stessa clandestinità comunista durante il fascismo. (Occorre ricordare che Togliatti nel dopo guerra, fece pubblicare i “quaderni del carcere” di Gramsci, mitizzando la comune esperienza ordinovista prima e clandestina poi ma, contemporaneamente, sottacendo l’isolamento del politico sardo che avendo espresso riserve su quanto accadeva in Russia, fu isolato dai suoi stessi compagni).
I furori rivoluzionari della massa studentesca si spensero ben presto lasciando però sul campo movimenti e giornali che creeranno una classe dirigente giacobina nella forma, ma borghese nella sostanza.
Il confine tra quei movimenti e la successiva lotta armata fu molto labile e il desiderio dei comunisti di riassorbire senza troppi traumi i loro figli ribelli, contribuì non poco a sottovalutare il terrorismo, complice anche una stampa che si stava schierando, quasi tutta, a sinistra. Il resto è Storia.
Quando il PC decise di liquidare i figli più scomodi, contemporaneamente assorbì, grazie al comunismo dal volto umano di Berlinguer, tutti gli altri. I più diventarono giornalisti e opinionisti, magistrati, commis dello Stato. Si ricreò dunque l’occupazione dell’area intellettuale che era già avvenuta nel dopoguerra e che fu scompaginata con la rivoluzione ungherese.
La mancata affermazione del Socialismo non più massimalista, fu dovuta (oltre che agli errori del Craxismo), soprattutto a queste nuove classi dirigenti di sinistra con il portafoglio a destra, ma con il cuore che batteva per la sinistra massimalista.
Naturalmente gli errori si pagano tutti insieme. Liquidati i socialisti, la sinistra si presentò agli elettori con una patente di verginità che non fu creduta, al punto che la maggioranza degli italiani votò per uno che, per mentalità e storia, non poteva essere più distante rispetto agli ormai ingrigiti sessantottini.