Aggiornato al 03/12/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Lulie Wallace (Charleston, South Carolina, Contemporanea) – A dinner scene

 

Cibo e Politica

A tavola con: Parri, Lombardi e Pertini

di Tito Giraudo

 

La redazione di Nel Futuro mi dà la possibilità di riproporre alcuni articoli da me scritti nel 2016: dopo l’overdose di politica elettorale e, nell’attesa di dare giudizi più meditati, ritengo opportuno un po’ di edonismo estivo, senza tradire del tutto la mia vocazione storico politica. Molta politica si fa e si è sempre fatta a tavola, in genere il cibo viene gustato poco, un po’ come avviene per i pranzi di lavoro dove gli interessi superano quasi sempre il piacere del gusto. Personalmente, ho sempre considerato il cibo uno dei piaceri della vita, anche da ventenne quando mi è capitato a tavola di incontrare politici famosi, non mi sono lasciato irretire del tutto dalla politica, pertanto i miei ricordi sono anche culinari.

 

 

Un pranzo con Ferruccio Parri

 

 

Erano gli anni ‘60. Da poco ero impegnato in politica. Responsabile della mia discesa in campo: il Professor Ferdinando Prat che insegnava Cultura Politica al CFM, la scuola professionale della Olivetti. Ero un pessimo allievo ma la cultura politica mi intrigava e Prat era mitico. Miope come una talpa, girava in Lambretta, il Padre: il Conte Prat era stato uno dei primi azionisti della Olivetti di Camillo.

Prat era reduce da Buchenwald, dove era stato spedito dai nazisti perché faceva parte della Resistenza canavesana. In quei tempi era un Socialista nenniano. Grazie a lui mi iscrissi al PSI di Ivrea diventando il segretario del giovani socialisti di quella città.

Prat, nei primi anni ‘60 si presentò alle elezioni amministrative provinciali. Noi giovani lo aiutammo nei comizi. Io, in particolar modo, mostravo chiari segni di quel “trombone” che sarei diventato in seguito, e quindi mi toccò di fare un comizio per sera e due comizi nel fine settimana.

A sostenere Prat venne a Ivrea Ferruccio Parri, il grande capo della Resistenza e primo Presidente del Consiglio dopo la liberazione.

Fisicamente mi deluse. Era un ometto dai capelli bianchi che tutto aveva, salvo la figura dell’eroe partigiano. Avevamo organizzato un comizio dove avrebbero parlato lui e Prat, io li presentai e di ciò mi pavoneggiai per un mesetto.

Finito il comizio, andammo a pranzo all’Hotel Sirio. Un ameno Hotel in riva al lago Sirio, lago morenico appena sopra ad Ivrea. Non ricordo bene cosa ci disse Ferruccio, a parte una frase che non ho mai dimenticato: Nel ‘43, noi resistenti eravamo quattro gatti, ma nell’ultimo mese del ‘45, tutti diventarono partigiani, anche quelli che avevano fatto i Fascisti.

Ricordo poco anche quello che mangiammo, a parte i Capunet, un piatto tipico del Canavese. Vi voglio dare la ricetta:

 

Capunet alla Parri (titolo su due piedi con poca fantasia)

Prendete un cavolo verza. Deve essere rigorosamente di Montalto Dora. Sempre a Montalto, andate a comperare un “salam dl Duja” nella salumeria che troverete all’ingresso del Paese se provenite da Ivrea.

Sbollentate le foglie del cavolo, poi preparate un ripieno con carne avanzata di arrosto ma in mancanza di quello, anche di bollito, il salame nel grasso sminuzzato un uovo e se è il caso un po’ di pan grattato per legare, finire con la noce moscata. Adagiate il ripieno sulla foglia di cavolo che poi arrotolerete, proseguite in questo modo a seconda dei convitati. Infornate per una decina di minuti a 180° e terminate con il grill, fintantoché sulla foglia non s’è formata una crosticina. Mangiate rigorosamente caldo. Ma se avanza potete riscaldare.

Prossime puntate: Un pranzo con Riccardo Lombardi, Una Cena con Sandro Pertini.

 

 

A pranzo con Riccardo Lombardi

 

 

Dopo la scissione dello Psiup mi spedirono in quel di Torino. Essendo un torinese Doc era il ritorno del figliol prodigo. Nella Fiom torinese, eravamo rimasti sguarniti di funzionari. Pensarono a me che ero un membro della Commissioni Interna della Olivetti.

Non è del sindacato questo ricordo ma del Partito. La Federazione torinese del PSI era in Corso Palestro, quello che parte da via Cernaia all’altezza dell’omonima caserma e arriva con il suo prolungamento, Corso Valdocco, al “Rondò dla Furca” chiamato così perché in quell’allegro sito si impiccavano i condannati.

Per oltre un anno abitai in una mansarda di quello stabile. Dopo la scissione dello PSIUP il Partito era sguarnito di dirigenti perché, a Torino, la maggioranza era su posizioni “carriste”.

I due compagni che di fatto ressero il Partito all’epoca, erano molto amici tra di loro: Sergio Borgogno e Giuseppe Lamberto, entrambi avevano fatto la Resistenza nella formazione partigiana di Detto Dalmastro, socialista pure lui (mi dissero anche massone). Era l’AD delle Cartiere Burgo, probabilmente era lui che tirava i fili politici del PSI autonomista di Torino. Aveva pure assunto alle Cartiere i nostri due, uno che era laureato, come capo del personale, l’altro, Sergio Borgogno dopo aver fatto il sindacalista dei poligrafici faceva il rappresentante dei sacchetti di carta della Burgo. Per la verità, lavorava poco perché troppo impegnato nel Partito. Era un uomo sanguigno, collerico, gli occhi spiritati. Vestiva elegantissimo e portava sempre il papillon. E’ stato una delle più brave persone che io abbia mai conosciuto.

Sergio e Giuseppe da sempre litigavano, tuttavia entrambi erano per la svolta nenniana. Il litigio politico (perché a livello personale furono sempre amici) avvenne quando Riccardo Lombardi, deluso per le scarse (secondo lui) realizzazioni socialiste nel Centro Sinistra, formò una sua corrente: i Lombardiani.

Sergio lo seguì e, con lui, noi della Federazione giovanile.

Riccardo Lombardi per noi era un mito, sentirlo parlare era un piacere, diceva sempre cose intelligenti, un estremista educato e gentile, come ora non se ne trovano. Solo anni dopo ho riconosciuto in lui tutti i difetti dell’Azionismo e la grande occasione che perse a uscire dalla maggioranza.

Quel giorno, venne a Torino per una riunione di corrente. Ci spiegò il perché era in dissenso con Nenni, lo seguimmo entusiasti. Era un omone alto, le lenti spesse, la voce un po’ cavernosa. Aveva un solo polmone perché i tedeschi l’avevano catturato e a suon di mazzate gli avevano rovinato un polmone. Fumava un toscano dietro l’altro.

Finita la riunione lo portammo a pranzo in un ristorantino nei pressi di piazza Carlo Felice: io e lui, ricordo mangiammo la carne cruda.

 

La Carne cruda

Da sempre i piemontesi mangiano l’insalata di carne cruda, facendo inorridire i meridionali, e questo vale anche per la “bagna cauda” (anche se in questi ultimi anni sono fioriti i “terroni” traditori).

In fabbrica, almeno un paio di volte l’anno, qualcuno la preparava in un “grilet” (zuppiera) che faceva il giro alle preparazioni della MC24 la macchina da calcolo, fiore all’occhiello della Olivetti di Adriano.

Non posso darvi la ricetta ma solo dei consigli. Noi piemontesi siamo soliti condirla con olio, poco limone, aglio intero per profumarla, pepe macinato al momento. La carne, vitello magro, va tritata al coltello. L’unica aggiunta permessa: una grattata di tartufo bianco di Alba, al massimo di Moncalvo, ma non allarghiamoci troppo.

Io che sono blasfemo adoro aggiungere alla carne cruda scaglie di carciofo crudo ma è cosa del tutto personale, naturalmente se non ho il tartufo.

Adoro anche la Tartare come la fanno al Procope di Parigi, il ristorante nel Quartiere Latino dove è stata scritta la Carta dei Diritti dell’Uomo. Loro, usano il filetto (sono più ricchi), sempre al coltello. A parte, nel piatto mettono cipolla dolce, cetriolini e cipolline sminuzzati sott’aceto, senape, anzi Moutarde de Dijon, e, dulcis in fundo: un rosso di uovo appoggiato in cima alla montagnola di carne. Ognuno la condisce come crede.

Non sono sciovinista, quando vado a Parigi un salto al Procope lo faccio sempre.

Prossimo articolo della serie: Una cena con Sandro Pertini.

 

 

 

A cena con Pertini

 

“Venta ndé a pié cul trumbun d’ Pertini” (bisogna andare a prendere quel trombone di Pertini). Così si espresse Sergio Borgogno per chiedermi di andare a ricevere l’allora Presidente della Camera alla Stazione di Porta Nuova di Torino. Sarebbe arrivato per chiudere il Festival dell’Avanti che mi era toccato di organizzare.

Oggi può stupire che un dirigente socialista torinese rivolgesse quell’epiteto nei confronti del vecchio socialista. Sergio era un sanguigno, probabilmente pensava che Pertini indulgesse spesso e volentieri nella demagogia. Non mi scandalizzai di sicuro perché “le vecchie guardie” sono sempre considerate superficialmente dalle nuove classi dirigenti. E poi con il senno di poi……

Rottamazione ante litteram, per usare termini renziani. Ma veniamo all’antefatto:

Era il ‘68. In una nota piazza del Borgo S. Paolo si svolgeva quell’anno il Festival provinciale dell’Avanti. Naturalmente una cosetta rispetto ai faraonici Festival dell’Unità.

Nonostante il mio primo lavoro fosse il sindacalista, non avevo certamente abbandonato l’attività nel Partito, anche quelle semi ludiche.

Alla Fiom di Torino, che allora era in via Principe Amedeo, avevo tanti nemici, nel Partito invece solo amici. Erano anni quelli in cui l’impegno sindacale e quello politico spesso coincidevano. Socialisti e comunisti eravamo imprestati al Sindacato anche se le cose stavano cambiando e l’autonomia dei sindacalisti dai rispettivi Partiti iniziava a farsi largo.

Molti di noi socialisti, avevano seguito Lombardi nella fronda a Nenni, così come i comunisti torinesi, capitanati da Sergio Garavini, erano Ingraiani convinti (da Ingrao, allora capo della sinistra interna). Ad ogni buon conto pur che non rompessi troppo le scatole mi concedevano libertà e quindi non ebbi difficoltà a organizzare quel Festival.

Era niente di che. In quella Piazza Galimberti, alcuni stand, un palco per i comizi, il ballo a palchetto, roba paesana insomma ma quello non era il PSI craxiano…

Pertini scese dal treno e io lo vidi da lontano. L’avevo visto sul palco romano nella giornata dell’unificazione tra PSI e PD. Mi era sembrato un vecchio comiziante, parlò tra il disinteresse generale.

Quell’ometto venne verso di me come se mi conoscesse. Era il Presidente della Camera ma non aveva alcuna scorta. Altri tempi….

“Ciao Sandro” gli dissi, come si usava a sinistra anche con i monumenti. Era cordiale ma sbrigativo. Lo informai che prima di portarlo al Festival si poteva andare a cena. Acconsentì, ritengo anche con un certo entusiasmo. Il treno Roma-Torino a quell’epoca impiegava quasi una giornata e quindi tutt’al più era stato al vagone ristorante, o forse no, visto che mangiò con estremo appetito. Chiacchierava volentieri con i giovani e quindi anche con me non fece eccezione.

Si informò su cosa facevo e quando seppe che provenivo dalla Olivetti, si illuminò.

Pensa Giraudo, quando facemmo fuggire Turati dall’Italia: Adriano l’aveva ospitato a Ivrea e poi con la sua macchina lo portò da me al porto di Savona. Avevo organizzato tutto, ci imbarcammo per la Francia su una barca di pescatori miei amici. Che tempi quelli, mi è toccato pure di fare l’imbianchino per campare.

Adriano, che allora non conoscevo, tornò a Ivrea. Il padre, Camillo, era un socialista riformista come me, anche se già allora era un industriale di successo. Adriano era uno strano uomo, sembrava timidissimo ma quando iniziava a parlare delle sue idee e dei suoi progetti era inarrestabile. Forse noi socialisti non eravamo maturi per collaborare veramente con lui e il suo Movimento. La sinistra l’ha considerato un concorrente e quindi combattuto, secondo me lui ha sbagliato come industriale a mettersi in politica”.

Poi, fece parlare me. Io non trovai di meglio che raccontargli di mio padre che da socialista rivoluzionario era diventato un fascista. Aveva però conservato l’amicizia di Camillo e quando nelle giornate dell’occupazione delle fabbriche era stato massacrato dai rossi, l’ingegnere di Ivrea se l’era preso con sé e ne aveva fatto un riparatore di macchine da scrivere. Gli raccontai delle persecuzioni che aveva avuto durante il Fascismo e di come dopo la Liberazione fosse stato epurato.

Pertini mi disse che molti compagni causa l’interventismo avevano fatto la scelta sbagliata. Avrei voluto, con lui, approfondire, ma la cena era finita e dovetti accompagnarlo al Festival, tuttavia ebbi l’impressione che quando si trattava di parlare del fascismo cessasse la sua bonomia.

Cenammo da Ferrero, un ristorante elegante che allora era sotto i portici di Corso Vittorio Emanuele, di fronte alla stazione, di fianco al “Ligure”, al tempo un bar ma che era stato un cafè chantant fin dalla Belle Epoque. Fu la prima volta che cenai in un ristorante di lusso, mi sembrava che il Presidente della Camera lo meritasse e Borgogno non aveva lesinato.

Ho cercato di ricordarmi cosa mangiammo, non ci sono riuscito e in un primo momento pensavo di fregare i lettori e inventarmi una ricetta per quella cena con Pertini. Il personaggio era schietto e quindi non merita una bufala. Non lo rividi più, se non in televisione da Presidente. Quando lo elessero mi ricordai di quella cena che forse avrei dimenticato se Pertini da “trumbun” non fosse diventato: Pertini.

Ho comunque il ricordo, se non di quella, di altre cene:

 

Le piole dei Socialisti

Ho cercato di ricordare i posti che noi ragazzi della Federazione Giovanile frequentavamo la sera.

Quella che mi ha lasciato un ricordo indelebile è: ” La Rosa Bianca”.

Una vera piola.

In fondo, ma proprio in fondo al Corso Vercelli, prima di arrivare alle case popolari della Falchera. Si trovava in una casa di campagna all’imbocco della Statale per il Canavese. Mio padre mi disse che ci andava sovente con il suo amico Gioda, e che era già una piola nell’ottocento.

Il menù, non era certo da voli pindarici. Tutti i giorni, pranzo e cena: agnolotti, milanese con patate fritte, e se proprio volevi scialare un antipasto: salame crudo e prosciutto cotto, (il prosciutto crudo in quel posto non lo conoscevano).

Ci andavamo, qualche volta alla Domenica e sempre al primo maggio.

Nelle feste comandate gli antipasti si arricchivano: “barice al verd” (acciughe al verde), vitel tonné e anche con i secondi si scialava con un arrosto di sanato.

Il Sanato è il vitellino da latte, ora carne proibita ma allora di uso comune in Piemonte, con quella carne cucinavano anche la milanese soffriggendola rigorosamente nel burro, quello che sfrigola ma senza bruciare.

Può sembrare un menù banale ma vi assicuro che dopo cinquant’anni il gusto della milanese della Rosa Bianca l’ho ancora in bocca. Dimenticavo, il vino era sempre sfuso servito nei mezzi litri, quelli con il bollo per intenderci.

Si andava anche alla Trattoria dell’Amicizia, una piola in corso Casale ai piedi della collina e della strada per Pino, Pino torinese è un paese in cima a una collina di fianco all’altra collina, quella di Superga. Per me, Pino, era il posto dove mi portava la mamma quando dopo la Liberazione andava a trovare papà. In realtà si trattava della “Nuove” il carcere torinese dove il camerata fu rinchiuso per un mesetto. Mamma aveva fantasia ma non ho mai capito perché chiamasse quel vecchi forte (altro che Nuove): Pino.

Cucina semplice ed economica anche quella dell’ “Amicizia”, servita in un locale affrescato con figure popolari. Poco più in la sulla strada che porta a Mongreno si andava a mangiare il gran piatto dei formaggi.

Posti a spirale su un gran piatto, si partiva dal più dolce per finire al più piccante, il terribile : “ brus”, preparato con scarti di formaggio immersi nella grappa.

Anni dopo, anche per ragioni di lavoro ho frequentato posti ben più prestigiosi ma quei gusti e quella compagnia non li ho mai dimenticati, mentre non ricordo “nevvero” (Sandro d’abitudine intercalava il termine) quello che io e Pertini mangiammo quella sera.

 

 

Inserito il:06/07/2018 10:11:53
Ultimo aggiornamento:06/07/2018 10:21:41
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