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Alla mercè dell’apparenza - Il piacere della maschera (2/2)
di Vincenzo Rampolla
Maschera deriva dall’etrusco phersu, tradotto poi dai Latini in phersu-na, persona. Nel teatro greco la maschera è indossata all’inizio per far risuonare (per-sonat, suonare attraverso) la voce nell’anfiteatro dello spettacolo e alla fine viene levata dall’attore per svelare l’identità.
Maschera, alter ego della persona. Maschera, facciata esibita per rappresentare il personaggio sul palcoscenico sociale: il falso, il sé di cui servirsi per celare la propria identità.
Tutti portiamo una maschera, dal ruolo alle attribuzioni sociali, ai rapporti abituali. Entro certi limiti è normale e sana e dosa la distanza emotiva nei confronti con gli altri. Frontiera fra noi e loro, è utile quando è precetto per sfoggiare la propria persona.
Tutela i miei aspetti privati, è serbata ai momenti riservati, i più importanti. Per svelarmi, il contesto più appropriato è quello di una relazione simmetrica e alla pari con gli altri, con chi a sua volta è aperto a togliersi la propria. È nel confronto intimo e armonioso che posso scoprirmi per quello che sono: far cadere la maschera. Diversamente, la relazione non potrebbe prendere corpo. Perché la maschera? Per dirigere la giusta distanza emotiva dagli altri? Per tutelare me stesso e gli altri da un eccessivo e improprio coinvolgimento? È corazza, scudo, arma fedele?
La indosso e la tolgo. È semplice, come mentire (W.Shakespeare), in perfetta sintonia con la mia posizione emotiva e nel contesto in cui mi trovo. E dietro la maschera deve sempre esserci la persona, con il suo vero volto, la sua vera identità. Non una nuova maschera.
La maggior parte della gente confonde la maschera con il volto reale, perde il contatto con il vero sé che cela, confonde la rappresentazione di sé con il vivere in piena autenticità. Ci sono individui che indossano maschere inossidabili, rimosse di rado, persone che assimilano l’essere con l’apparire. Si identificano più con la loro maschera che con il loro vero sé, con cui hanno magra confidenza. L’origine della parola persona ricorda che l’identità di ogni individuo è sempre nascosta dietro una maschera. Se confondo la facciata con l’autenticità, mi condanno a credere di essere ciò che non sono, dunque la maschera cela la mia vera identità, senza essere soppiantata, fraintesa, confusa con essa. Quanti vivono solo di facciata? Ingabbiati nella loro maschera, lugubre e monotona difesa dal mondo saldamente incollata al volto, malsano adattamento alla realtà sociale, oscuro paravento della persona? Intoccabile, ferma, un falso sé cela il vero sé, lo soffoca, lo inghiotte per celare un senso interiore di essere vuoto, opaco, sterile. Cha valore ha? Unione simbiotica con la sua farsa, il suo gioco e la sua ossessione: vivere ostentando la facciata, impedire che qualcuno possa penetrarla e violi la sua intimità, scoprire la miseria dell’ostinazione a celarla. Alla facciata, barattata con la sostanza, vanno tutte le attenzioni per ben figurare agli occhi del mondo, gli altri. Che succede quando non ha coscienza di averla, quando la indossa come una tuta antivirale? Ignora chi sia veramente, incosciente della mascherata. Ogni falsità è una maschera, e per quanto la maschera sia ben fatta, con un po’ di attenzione si arriva sempre a distinguerla dal volto (A. Dumas).
L’ossessione dell’apparire è sorella del narcisismo, marchiato dal bisogno compulsivo di riconoscimento dell’approvazione sociale. A tutti i costi. Forma senza consistenza. Pura finzione. Adesione simulata. Ostentazione del nulla. Yes nel cellulare, capacità di giudizio frantumata, dispersa, annebbiata da una banale scelta tra un sì e un no. Giudizio binario, asettico, impulsivo. Vietato pensare. Baratro. Ansietà di essere soli, di non partecipare al vortice dei messaggi piovuti dal mondo apparente dei social network.
La parte infantile della persona, il bimbo nascosto dietro la maschera, insicuro e impaurito, chiede di essere amato, ma il vanitoso adulto che lo rappresenta, lo istiga a sfoggiare incessantemente presunte virtù e qualità, di cui non è per nulla dotato: perenne gioco al massacro, destinato a effimere vittorie e perenni cadute, fondato su scambi privi di parità e reciprocità. Il narciso chiede egoisticamente per sé e non si preoccupa di ricambiare i bisogni dell’altro. Rimossa la maschera, la persona può mostrare il volto, il suo vero sé. L’individuo diviene persona quando non mente a se stesso, ha imparato ad accogliere luci e ombre del proprio volto, della propria identità. Per diventare se stessi, realizzare il proprio sé, bisogna andare oltre le multiformi identità parziali assunte nel tempo: devo avere il coraggio di perdere le sicurezze dei fragili ruoli precari che di volta in volta interpreto per imitazione e identificazione, per adattarmi alla realtà esterna che mi dà l’illusione di essere qualcuno. Devo abbandonare le recite transitorie di me stesso, per giungere alla vera integrità, affermare la mia identità. Per diventare se stessi, bisogna lasciare andare i centomila personaggi pirandelliani in cerca della scena, affrontando a viso aperto la paura di non essere nessuno.
Nessuno può diventare ciò che non è. Non possiamo per lungo tempo assumere identità, ruoli che non ci appartengono. Quando le nostre emozioni, i sentimenti, i pensieri, le azioni e tutto ciò che facciamo non è allineato con la nostra vera natura, paghiamo lo scotto per la non-autenticità, con disagio e sofferenza sul piano psicologico e somatico. La salute mentale inizia con la scoperta e l’accettazione profonda di noi stessi, per ciò che siamo realmente. Che fare per proteggerla? La cosa più rara: essere umani, normali, ragionevoli, semplicemente naturali, essere se stessi: unici, irripetibili, imperfetti.
Semplice? Grande impresa: eroica, eccezionale.
E quando siamo veramente noi stessi? La psicoanalisi distingue il vero sé, la parte più profonda e genuina di se stessi, dal falso sé, specchio delle parti messe in atto a difesa del vero sé. Se non conosciamo le parti più profonde e intime di noi stessi, o le percepiamo come fragili e incapaci, finiamo con l’identificarci del tutto con la maschera, perdendo contatto con il nostro vero sé. Siamo autentici se sentiamo un senso di interezza, di coerenza interna e di armonia fra i diversi livelli del nostro essere: il corpo, la mente, lo spirito. Per nobiltà d’animo, le persone autentiche sono a loro volta mascherate, compassionevoli e indulgenti, ma anche crudeli e spietate, con se stesse e con gli altri. Tolgono la maschera e ci mettono la faccia. Rinunciano all’anonimato, alla volgare identificazione con i modelli sociali. Non mi sono accadute che cose inaspettate. Molto avrebbe potuto essere diverso se io fossi stato diverso. Ma tutto è stato come doveva essere; perché tutto è avvenuto in quanto io sono come sono (C.G. Jung).
L’individuo maturo, la persona vera ha bisogno di apparire, di ostentare le sue qualità? No.
Consapevole dei suoi limiti e delle sue qualità, egli bada al contenuto più che alla forma, ad essere più che apparire. Il vanto dei piccoli consiste nel parlare sempre di sé, quello dei grandi di non parlarne mai (Voltaire). Egli si aspetta di essere riconosciuto più per la sua solidità che per una immagine falsa e evanescente. Schivo dei richiami mondani, non soffre di solitudine, sa stare in compagnia di se stesso, non cerca rifugio nel mondo virtuale. Sa amarsi. Non fluttua nella palude del conformismo, tra le pozzanghere della finzione: procede con il vento avverso. La voga controcorrente è figlia del coraggio, trascende l’individuale per tuffarsi nell’universale.
È persona fra le persone. Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti. C’è una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro. E quando stai solo, resti nessuno (L. Pirandello).