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BRICS+ e il tramonto dell’Occidente, che non se ne accorge
di Achille De Tommaso
Nel grande reality della geopolitica globale, l’Occidente sembra recitare ancora un copione ottocentesco mentre il mondo cambia scena, attori e linguaggio.
È in atto un mutamento strutturale che non è più possibile ignorare: non si tratta solo di nuove alleanze o di rivalità economiche, ma della riformulazione dell’ordine mondiale. Eppure, nelle capitali europee e nei think tank atlantisti, si insiste a credere che la globalizzazione sia ancora un gioco a somma positiva gestito da Washington, con Bruxelles a fare da coro.
La realtà racconta tutt’altro.
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Il blocco dei BRICS+ – che oggi comprende non solo Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, ma anche nuovi membri come Egitto, Iran, Etiopia, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Argentina (con osservatori in fila) – non è più una sigla per conferenze accademiche, ma una coalizione planetaria con un’agenda concreta: infrastrutture alternative, valute di scambio autonome, mercati paralleli, istituzioni finanziarie indipendenti dal Fondo Monetario e dalla Banca Mondiale. Una nuova architettura multipolare prende forma sotto gli occhi di un Occidente che sembra guardare altrove, distratto da conflitti che ha contribuito ad alimentare ma che non riesce più a controllare.
Il cuore di questa trasformazione è la de-dollarizzazione. Secondo i dati aggiornati della Banca Mondiale e del FMI, la quota del dollaro nei commerci internazionali è scesa dal circa 85% nel 2010 al 58% nel 2024, e in ulteriore calo nel 2025 nei traffici tra i Paesi BRICS+ (che oggi rappresentano più del 40% del PIL globale in PPP). Gli scambi tra Russia e Cina avvengono ormai per oltre l’80% in yuan o rubli. Arabia Saudita e India trattano in rupie, la Banca Asiatica d’Investimento lancia bond in valute locali, e le nuove piattaforme di pagamento stanno superando lo SWIFT statunitense come numero di transazioni. Tutto ciò non è simbolico: è un attacco sistemico all’egemonia monetaria americana.
E qui si inserisce un altro aspetto rivelatore: la decadenza dell’egemonia morale dell’Occidente, quella pretesa di universalismo liberale e democratico con cui si giustificavano guerre, embarghi, destabilizzazioni e “esportazioni di valori”. Oggi, in gran parte del Sud globale, queste retoriche suonano stonate. L’America trumpiana, isolazionista e transazionale, sta forse minando la propria credibilità; ma l’Europa, concentrata a criticare Trump, è in realtà prigioniera della propria paralisi, recita ruoli secondari, mentre i veri giochi si svolgono a Pechino, Mosca, Riad, Ankara e Teheran.
È emblematica la trasformazione dell’Arabia Saudita: da monarchia tribale a snodo tecnologico-finanziario, da alleato USA a interlocutore privilegiato di Cina e Russia. Riyadh oggi finanzia, commercia, investe in yuan e costruisce alleanze asiatiche. La sua adesione ai BRICS+ è tanto economica quanto simbolica: il petrolio si sgancia lentamente dal dollaro, e con esso il petrodollaro che ha garantito per decenni il primato statunitense.
Nel frattempo, la Turchia di Erdogan gioca su più tavoli, oscillando tra NATO e Russia, vendendo droni a Kiev ma acquistando gas da Mosca. Una politica estera ottomana più che atlantica, che disorienta i vecchi centri di potere.
E l’Europa? In sonno profondo. Trattata come una dépendance strategica, divisa tra velleità sovraniste e sudditanza sistemica. Più che attore, è terreno di gioco. Insegue con lentezza le guerre altrui, aumenta la spesa militare senza strategia, e si accontenta di moralizzare il mondo mentre perde influenza, materie prime, competitività industriale e – non ultimo – identità culturale.
Trump, con il suo cinismo, ha accelerato questo processo: ha smontato alleanze, delegittimato la NATO, sfidato la diplomazia multilaterale. Ma il paradosso è che, proprio attraverso la sua presidenza, il mondo ha capito che l’America non è più affidabile come garante di alcun ordine. E ha iniziato a costruire il proprio.
Siamo davanti a un vero e proprio capovolgimento di paradigma storico. Non si tratta di tifare per l’uno o per l’altro fronte, ma di constatare che il secolo in cui l’Occidente dettava le regole – commerciali, tecnologiche, monetarie, culturali – sta finendo. E che la prossima Guerra Fredda, se ci sarà, sarà meno ideologica e più economica. Come sempre. Perché – e la storia lo dimostra – sono le guerre economiche a generare quelle militari, mai il contrario.
Il copione è cambiato. Ma chi lo recita continua a usare battute scritte per un mondo che non esiste più.