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Quando nessuno risponde al telefono: la Germania scopre di non contare più (e l’Europa?)
di Achille De Tommaso
Il 24 ottobre 2025 è successo qualcosa che in diplomazia equivale a un pugno nello stomaco. Il ministro degli Esteri tedesco Johann Wadephul aveva preparato le valigie per Pechino, ma il viaggio è stato cancellato. Non per un'emergenza, non per questioni tecniche. Semplicemente, nessuno in Cina aveva tempo per lui. O meglio: nessuno ha voluto trovare il tempo.
Pensateci un attimo. La Germania è il principale partner commerciale della Cina in Europa. Parliamo di miliardi di euro di scambi, di industrie intrecciate, di dipendenza reciproca. Eppure, quando il ministro degli Esteri tedesco bussa alla porta, dall'altra parte nessuno apre.
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Wadephul, in carica da maggio, aveva le idee chiare. Voleva parlare di cose concrete: l'accesso delle aziende tedesche al mercato cinese, le restrizioni sui semiconduttori e le terre rare, la posizione di Pechino sulla guerra in Ucraina. Insomma, tutti i nodi che stanno strangolando le relazioni tra Europa e Cina.
La risposta cinese? Gelida. "Va bene, possiamo fare un incontro formale, il minimo sindacale". Niente visite alle aziende, niente università, niente di quella rete di contatti che rende una missione diplomatica davvero utile. A quel punto, a Berlino hanno capito: meglio annullare tutto che accettare una simile umiliazione.
Un parlamentare dell'SPD l'ha detto senza giri di parole: "Dobbiamo ripensare completamente la nostra strategia con la Cina. Questo non è un buon segnale". E aveva ragione, perché non lo è.
La realtà scomoda delle nostre fabbriche
Qui arriviamo al punto dolente. L'Europa, e la Germania in particolare, dipende dalla Cina in modo quasi imbarazzante. Non solo per vendere le nostre auto o comprare i loro prodotti. No, è molto più profondo: batterie, chip, terre rare, componenti elettronici. Senza la Cina, buona parte della nostra industria si ferma.
Wadephul voleva proprio affrontare questo tema, cercare un modo per ridurre questa dipendenza o almeno gestirla meglio. Ma per negoziare servono due parti disposte a parlare. E Pechino ha fatto capire che, al momento, non vede la Germania come un partner indispensabile, ma come uno dei tanti clienti in fila.
C'è qualcosa di profondamente significativo in tutto questo. La Cina oggi parla con Washington, con Mosca, con l'Arabia Saudita, con l'India. Sono questi i tavoli dove si decidono le cose importanti. L'Europa? È seduta nelle file dietro, insieme a chi ascolta ma non decide.
Questo non è solo un problema di orgoglio nazionale. È il riflesso di un declino reale. Il continente che ha inventato la rivoluzione industriale, che ha dettato le regole del commercio globale per secoli, oggi importa tecnologie, strategie, e perfino la propria rilevanza politica.
Le conseguenze che pagheremo tutti In Europa
Sul piano pratico, se la Germania vacilla, vacilla tutta l'Europa. L'industria automobilistica, la chimica, la meccanica di precisione: sono tutti settori dove le catene di fornitura passano da Shanghai e Shenzhen. Se quei rapporti si raffreddano, a pagarne il prezzo saranno i lavoratori, le famiglie, le piccole imprese che dipendono da quelle grandi.
E c'è un'ironia amara in tutto questo: abbiamo passato anni a liberarci dalla dipendenza dal gas russo, solo per scoprire che siamo legati mani e piedi al litio, al nichel e alle batterie cinesi.
La cancellazione del viaggio di Wadephul non è un incidente burocratico. È un messaggio chiaro: l'Europa non è più considerata un interlocutore privilegiato. La Germania, che per decenni ha fatto da ponte tra Occidente e Oriente, ora scopre che quel ponte funziona solo in una direzione.
E mentre noi discutiamo di transizione verde, di autonomia strategica, di digitale, Pechino decide chi merita di essere ascoltato e chi può aspettare.
Quando nessuno ti manda più inviti
Forse dovremmo ringraziare Pechino per la lezione di realismo.
Non serve un comunicato ufficiale per capire che il mondo non ruota più attorno all’Europa.
Eravamo convinti di essere i maestri del progresso, i custodi dell’etica, gli architetti del “nuovo ordine verde”. E invece, oggi, non troviamo nemmeno qualcuno disposto a offrirci un tè di cortesia. L’Europa continua a parlare di “valori”, mentre gli altri parlano di “valore”. Noi discettiamo di regolamenti, loro costruiscono fabbriche. Noi ci congratuliamo per la nostra coscienza climatica, loro per il loro PIL.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: siamo diventati il continente che si compiace di avere sempre ragione, ma che non viene più invitato a nessuna delle riunioni in cui si decide il futuro.
E così, quando il telefono squilla nel palazzo della diplomazia europea, dall’altra parte del mondo, semplicemente, non risponde più nessuno.

