Aggiornato al 02/12/2025

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Manovra 2025: tra prudenza, credibilità europea e il nodo irrisolto della crescita

di Giorgio Bertolina

 

La discussione attorno alla manovra finanziaria 2025 si inserisce in un contesto nel quale l’economia italiana continua a occupare una posizione centrale nel dibattito europeo. Le tensioni tra governo e opposizioni nascono dalla consapevolezza che temi come debito pubblico, sostenibilità dei conti ed evasione fiscale rappresentano i principali terreni di confronto politico e allo stesso tempo, i punti più delicati per il futuro del Paese. Le scelte compiute quest’anno poggiano su una base economica che rimane fragile: secondo le proiezioni, il PIL italiano oscillerà tra 2.200 e 2.315 miliardi nel 2024 e potrebbe raggiungere, nel 2025, valori compresi tra 2.331 e 2.460 miliardi. Il debito, invece, continuerà a crescere, superando i 3.080 miliardi, con un rapporto debito/PIL che, nelle stime più caute, resterà comunque oltre il 125%.

All’interno di questo quadro, il bilancio dello Stato per il 2025 offre un’immagine nitida della complessità strutturale del Paese. Le imposte dirette e indirette costituiscono la quota principale delle entrate, mentre la spesa corrente assorbe la maggior parte delle risorse. In un contesto simile, dove la macchina pubblica richiede ingenti fondi per garantire servizi essenziali e onorare impegni consolidati, lo spazio per politiche espansive appare inevitabilmente ridotto.

È da questa consapevolezza che prende forma una manovra descritta come prudente. L’obiettivo principale è quello di mantenere sotto controllo il deficit, accompagnandolo verso un graduale rientro attorno al 3,4% del PIL. Una scelta che risponde sia alle aspettative europee sia alla necessità di preservare la credibilità del Paese sui mercati. Gli interventi previsti, sebbene distribuiti su molteplici fronti — dal fisco al lavoro, dalle imprese al welfare — non introducono misure tali da modificare in profondità la struttura economica italiana. Si tratta piuttosto di aggiustamenti mirati, pensati per dare continuità all’azione di governo senza strappi né accelerazioni improvvise.

La parte relativa alle coperture conferma una logica di equilibrio più che di espansione. La rimodulazione del PNRR, le misure a carico del settore bancario e assicurativo, i tagli alle spese dei ministeri e alcune entrate straordinarie permettono di finanziare il grosso degli interventi. Il margine residuo è minimo, segno evidente di una strategia volta a rassicurare Bruxelles e gli investitori internazionali.

Il nodo centrale resta il debito pubblico. L’Italia convive da decenni con un fardello che condiziona qualsiasi scelta politica. Negli anni ’70 il rapporto debito/PIL era attorno al 60%; negli anni ’80 ha iniziato a crescere rapidamente, superando il 100% nei primi anni ’90 e oscillando poi tra il 99% e il 105% fino alla crisi del 2008. Da quel momento, l’equilibrio si è spezzato: la recessione globale e la successiva crisi pandemica del 2020 hanno portato il debito fino al 154,9%. Oggi si cerca di invertire la rotta, ma il percorso è lungo e gli effetti delle nuove regole europee sui bilanci pubblici richiederanno ulteriori aggiustamenti.

Nonostante queste criticità, negli ultimi mesi l’Italia ha riconquistato una certa credibilità. Le agenzie di rating hanno migliorato la valutazione del debito sovrano: Fitch ha portato il rating a BBB+, mentre Moody’s ha rivisto l’outlook a stabile, promuovendo il Paese a Baa2. Lo spread è sceso, segnale che i mercati interpretano la prudenza della manovra come un impegno serio verso la sostenibilità dei conti pubblici. Anche Bruxelles ha espresso apprezzamento per il piano di riduzione graduale del debito.

Tuttavia, sotto la superficie rimangono fragilità strutturali che non possono essere ignorate. L’evasione fiscale, nonostante un leggero miglioramento negli ultimi anni, resta una delle più elevate d’Europa: il tax gap stimato dal MEF è ancora superiore agli 83 miliardi. Si tratta di un fenomeno che varia notevolmente da regione a regione, con il Mezzogiorno che presenta livelli di evasione nettamente più alti. Una parte del problema riguarda la struttura produttiva italiana, basata su microimprese spesso difficili da controllare e su pratiche elusive adottate da gruppi internazionali. Ma c’è anche un problema culturale: fatica a passare l’idea che ridurre la pressione fiscale possa, in un quadro di regole efficienti, generare un aumento del gettito.

Accanto alla lotta all’evasione, un’altra leva cruciale è quella della spesa pubblica. Da anni si discute della necessità di una vera spending review e le analisi, come ad esempio lo studio di Carlo Cottarelli, hanno più volte sottolineato come sia possibile recuperare tra i 20 e i 30 miliardi intervenendo su sprechi, duplicazioni amministrative e inefficienze. Razionalizzare le partecipate in perdita, rivedere appalti e acquisti pubblici, investire nella digitalizzazione dei servizi, ridurre consulenze e spese non essenziali: sono tutti interventi che richiedono tempo, determinazione e, soprattutto, stabilità politica.

La crescita economica, infine, rimane la variabile più importante e allo stesso tempo la più difficile da stimolare. L’Italia ha bisogno di investimenti infrastrutturali moderni, di una digitalizzazione capillare, di un ambiente più favorevole alle imprese e di un mercato del lavoro capace di valorizzare competenze e produttività. Le riforme della giustizia, della burocrazia e del sistema fiscale rappresentano condizioni essenziali per attrarre investimenti esteri, creare occupazione e aumentare la competitività del Paese.

Nel complesso, la manovra 2025 racconta un’Italia che cerca equilibrio più che slancio, stabilità più che trasformazione. Una scelta comprensibile in un momento storico caratterizzato da incertezza internazionale e da vincoli stringenti sul fronte del debito. Ma per affrontare in modo definitivo i problemi che limitano la crescita, serviranno soprattutto stabilità politica e coraggio riformatore.

Il governo Meloni, tra i più longevi della storia repubblicana, dimostra una volta di più che solo garantendo stabilità si possono immaginare interventi di largo respiro temporale e strutturale e che qualunque riforma della legge elettorale si voglia immaginare e proporre, dovrebbe perseguire l’obiettivo primario di garantire la governabilità del paese per un intero quinquennio al vincitore delle elezioni.

Purtroppo, si assiste invece ancora una volta a tentativi di ritorno al proporzionale che, se da un lato garantisce una maggior rappresentatività democratica in Parlamento, certamente porta a coalizioni di Governo dove inevitabilmente il compromesso rappresenta il nemico numero uno di una seria politica di riformismo strutturale, unica ricetta per un vero rilancio del paese e di riduzione del debito.

Arrivo a pensare che solo l’introduzione di uno sbarramento molto elevato (10%) all’ingresso in Parlamento, un premio di maggioranza che premi il partito che vince le elezioni, il partito si badi bene, non una coalizione, possano assicurare quella governabilità oggi ancora più necessaria.

Certo può capitare che ci si ritrovi al governo del paese il partito che non è il nostro preferito, ma almeno si potrebbe finalmente giudicare dopo cinque anni quello che è stato fatto e valutare eventuali cambiamenti di preferenza.

 

Inserito il:01/12/2025 18:20:45
Ultimo aggiornamento:01/12/2025 20:40:54
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