Aggiornato al 02/12/2025

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Immagine realizzata con strumenti di Intelligenza Artificiale

Clicca qui per ascoltare 

 

Tre anni dopo: la pace mancata, il conflitto prolungato e l’occasione smarrita dell’Europa

di Achille De Tommaso

 

Gli sviluppi recenti del conflitto hanno prodotto, nel dibattito occidentale, un cambiamento percettivo; una nuova consapevolezza della difficoltà strutturale in cui si trova l’Ucraina dopo anni di guerra di logoramento. Sul piano finanziario, l’UE ha constatato i limiti dell’utilizzo dei beni russi congelati. Sul piano politico, cresce in diversi Paesi europei una stanchezza diffusa nei confronti del conflitto, mentre i costi economici e sociali aumentano. Sul piano militare, Kiev è sotto pressione crescente: l’esercito ucraino sconta la scarsità di uomini, la difficoltà nel completare la mobilitazione e il progressivo esaurimento delle riserve.  Gli Stati Uniti, da parte loro, stanno rivalutando le proprie priorità strategiche, con un’attenzione crescente alla rivalità con la Cina.  Infine, i media occidentali hanno iniziato a riportare con maggiore schiettezza la situazione sul campo, riconoscendo che la Russia mantiene una posizione più stabile di quella ucraina. Tutto pare indicare un realismo nuovo, che riconoscerebbe la necessità dell’Ucraina di aderire, prima o poi, alle richieste russe.

A quasi millecinquecento giorni dall’offensiva russa del febbraio 2022, emerge, però, con chiarezza la sensazione amara di occasioni perdute. Una pace che, secondo molte ricostruzioni attendibili, era più volte prossima, prima che centri decisionali, soprattutto anglosassoni, la boicottassero. E’ giusto, a mio parere, ricostruire oggi quella sequenza di eventi, per interrogarsi sulla dinamica reale del conflitto, sulle interferenze esterne, sul fallimento dell’Europa e sul prezzo umano pagato per decisioni prese altrove. E per non incorrere in decisioni catastrofiche per l’Europa.

***

2014: La rimozione di Yanukovich e l’origine di una frattura mai ricomposta

Il punto di partenza può essere l’anno 2014 (alcuni dicono il 2008), quando la deposizione del presidente Viktor Yanukovich (supportata secondo molti dagli USA), viene percepita dalle popolazioni russofone del Donbass e della Crimea come un rovesciamento istituzionale. Da quel momento, le regioni sud-orientali, Donetsk e Luhansk in particolare, si considerarono abbandonate e minacciate da Kiev.

 

Maidan, la frattura interna e la crisi mancata

Nel 2013-2014 l’Ucraina era stata infatti attraversata dalle cosiddette proteste di Euromaidan, una mobilitazione civile esplosa in piazza Maidan Nezaležnosti, a Kiev, dopo la decisione del presidente Viktor Yanukovich di sospendere l’accordo di associazione con l’Unione Europea. Le manifestazioni si trasformarono in un confronto violento, segnato da sanguinosi scontri di piazza, interventi armati e un drammatico crescendo di tensione che culminò con la fuga di Yanukovich e l’ascesa di una nuova classe dirigente fortemente orientata verso l’integrazione euro-atlantica. Il nuovo equilibrio politico portò alla presidenza Petro Poroshenko, supportata dagli USA (si ricordi “fuck Europe”).

Per comprendere la dinamica successiva del conflitto è essenziale osservare come Euromaidan fosse percepito nelle regioni russofone del Sud-Est, non come un processo democratico interno, ma come:

  • un rovesciamento istituzionale condotto contro la loro volontà;
  • un cambio di potere che avrebbe progressivamente marginalizzato le comunità russofone; 
  • l’inizio di un orientamento politico che rompeva gli equilibri storici dell’Ucraina post-sovietica.

La nuova classe dirigente di Kiev, infatti, adottò rapidamente misure percepite come ostili nelle regioni orientali: revisione delle politiche linguistiche, restrizioni verso i partiti filorussi, riorganizzazione del potere locale, sostituzione dei vertici amministrativi. Il rapporto dell’OHCHR (2014-2016) evidenzia come la tensione fosse già allora altissima, alimentata da sfiducia reciproca e dalla sensazione, nelle comunità orientali, di essere rimaste senza rappresentanza politica e senza protezione.

Abusi, violenze e il ruolo delle milizie volontarie

Nel vuoto istituzionale seguito al 2014, entrarono rapidamente in scena le milizie volontarie ucraine:

Il Battaglione Azov, fondato nel maggio 2014 a Mariupol da Andriy Biletsky, ex leader del gruppo ultranazionalista (leggi:”nazista”) Patrioti d'Ucraina, che si distinse per la sua ideologia dichiaratamente di estrema destra e per l'uso di simboli controversi come il Wolfsangel.  

Il Battaglione Aidar, costituito anch'esso nella primavera del 2014, operò prevalentemente nelle regioni di Luhansk e nella zona settentrionale del Donbass.  Amnesty International e Human Rights Watch documentarono, nei rapporti del 2014-2015, accuse verso il battaglione, di detenzioni arbitrarie, saccheggi e violenze contro civili.

Il Battaglione Dnipro-1, fu formato dal governatore della regione di Dnipropetrovsk, l'oligarca Ihor Kolomoyskyi.  La sua origine come milizia privata finanziata da un magnate sollevava interrogativi sulla sovrapposizione tra interessi oligarchici e apparato di sicurezza statale.

Le principali organizzazioni internazionali — Amnesty International, Human Rights Watch e l’OHCHR delle Nazioni Unite hanno documentato, con continuità tra il 2014 e il 2016, un quadro complesso e doloroso di soprusi verso la popolazione russofona:

  • detenzioni arbitrarie;
  • maltrattamenti e torture in strutture non ufficiali;
  • sparizioni forzate;
  • estorsioni ai danni di civili;
  • episodi di violenza attribuiti a gruppi armati sia separatisti sia filo-ucraini;
  • intimidazioni e abusi nei confronti delle comunità russofone in aree contese.

Il rapporto congiunto Amnesty International + Human Rights Watch “You Don’t Exist” (2016) elenca casi concreti di torture, detenzioni illegali e violazioni gravi dei diritti umani da parte di milizie filo-Kiev.
Il dossier “Breaking Bodies” (2015) documenta uccisioni sommarie e maltrattamenti sistematici.
I report dell’OHCHR (n. 8, 12, 14) e le monitoring missions dell’OSCE descrivono un ambiente dominato da paura, arbitrarietà e assenza di controllo istituzionale.

Il Battaglione Azov, in particolare, viene citato più volte nelle analisi internazionali per:

  • legami iniziali con ambienti “nazisti”;
  • episodi controversi in alcune operazioni nel Donbass;
  • una cultura interna percepita come aggressiva dalle popolazioni locali;
  • difficoltà strutturali dello Stato ucraino a esercitare pieno controllo sull’unità nelle prime fasi del conflitto.

Ma parliamo delle paci fallite.

Gli Accordi di Minsk: una promessa mai realizzata

Nel tentativo di contenere tale degenerazione, nel 2014 e nel 2015 vennero sottoscritti i due celebri Accordi di Minsk, mediati da Francia e Germania. Il loro obiettivo, almeno formalmente, era chiaro:

• stabilire un cessate il fuoco;
• riconoscere al Donbass una forma di autonomia amministrativa;
• ritirare le formazioni paramilitari e i contingenti irregolari;
• avviare un percorso costituzionale condiviso.

Ma Minsk rimase sostanzialmente sulla carta, e le ammissioni sono venute dagli stessi protagonisti:

  • Petro Poroshenko, dichiarò più volte che quegli accordi furono utilizzati per “guadagnare tempo” e fortificare militarmente l’Ucraina;
  • Angela Merkel, una delle principali mediatrici, ha successivamente confermato che Minsk servì a rafforzare l’Ucraina, pur sapendo che le condizioni per una piena applicazione non esistevano. Di recente, poi, la stessa Merkel, in un’intervista, ha affermato che a contribuire all’affossamento delle proposte di pace contribuirono anche i Paesi Baltici e la Polonia.

Anche il governo Zelensky, nato con ambizioni pacificatrici, scelse poi un orientamento chiaramente volto verso l’ingresso nella NATO, aggravando la percezione del rischio strategico in Russia e minando le ultime possibilità di compromesso.

Febbraio-Aprile 2022: la diplomazia di Istanbul e la pace a un passo dalla firma

Nelle settimane immediatamente successive all’invasione russa, mentre il mondo immaginava una capitolazione rapida dell’Ucraina, (per la disparità delle forze) e della Russia (a seguito delle sanzioni) la diplomazia si muoveva silenziosamente. I negoziati di Istanbul, confermati da più testimonianze, avevano portato le delegazioni a un testo quasi definitivo. I negoziatori ucraini, secondo numerose ricostruzioni, esultarono a champagne (letteralmente) quando divenne chiaro che Mosca sarebbe stata disposta a ritirarsi a condizione che Kiev rinunciasse all’ingresso nella NATO e accettasse un regime di neutralità armata, sul modello austriaco. Era, secondo alcuni dei protagonisti, la migliore occasione per interrompere la guerra prima della carneficina degli anni successivi.

Il 9 aprile 2022: la visita di Boris Johnson e la fine del negoziato

Tutto cambiò il 9 aprile 2022, quando l’allora primo ministro britannico Boris Johnson si recò a Kiev in un incontro che la stessa stampa occidentale definì “determinante”. Secondo più ricostruzioni giornalistiche e diplomatiche:

  • Johnson avvertì Zelensky che la NATO non avrebbe accettato alcuna tregua;
  • consigliò di non firmare nulla con Mosca;
  • insistette sulla necessità di “continuare la guerra per indebolire la Russia”. Che, a seguito di sanzioni, sarebbe capitolata.

Da quel momento, i colloqui si interruppero; la diplomazia uscì di scena e il conflitto entrò nella fase di logoramento che oggi conosciamo. La decisione non fu europea. Non fu nemmeno ucraina. Fu, secondo queste ricostruzioni, atlantica: presa nelle capitali anglosassoni che vedevano nella guerra un’opportunità strategica, non una tragedia da evitare. Alcune fonti parlano, però, anche di un milione di sterline di acquisti di armi passato di mano in quell’occasione, e nominano il coinvolgimento un’azienda facente capo a Johnson. Altre fonti aggiungono che per la NATO questa guerra era una scusa di sopravvivenza. Ricordiamo infatti l’osservazione di Macron: “la NATO è ormai uno zombie”.

Millecinquecento giorni dopo: una guerra senza vittoria e un’Europa senza voce

Oggi, a distanza di circa 1500 giorni, l’Ucraina è stremata, l’Europa economicamente indebolita; con la Russia ancora saldamente sul terreno. Nel frattempo, gli Stati Uniti, con le amministrazioni Trump orientate verso il confronto globale con la Cina, stanno inducendo Zelensky ad accettare un compromesso: non tanto per amore della pace, ma perché Washington ha cambiato priorità.

L’Europa: retorica della vittoria, riarmo cieco e disconnessione dall’elettorato

Mentre gli equilibri globali mutano, l’Europa continua a ripetere:

  • “pace giusta”
  • “resistenza a oltranza”,
  • “riarmo strategico”,

Ma la distanza tra retorica istituzionale e realtà sociale è diventata abissale:

  • in diversi Paesi europei, gli elettori votano forze politiche anti-invii di armi pur di fermare l’escalation e arrestare l’impoverimento interno;
  • i dati Censis, in Italia, mostrano che l’80% degli italiani è ormai dichiaratamente ostile alla NATO: questa organizzazione è considerata, costosa, dannosa, inutile e guerrafondaia. La gente non crede più all’alleanza, la vede come un fantasma che chiede soldi e non dà protezione. Si pretende il 5% del PIL in spese militari, ma chi garantisce che domani non sarà il 10, il 20, il 100? Nel frattempo, mentre scrivo, viene annunciato che un certo ammiraglio Cavo Dragone afferma che “la NATO starebbe valutando un attacco preventivo”.  

Gli eurobond per il riarmo: il paradosso strategico dell’Unione

Tra le decisioni più controverse partorite negli ultimi mesi a Bruxelles emerge il progetto di emettere eurobond per 500 miliardi, destinati alla cosiddetta “transizione militare”. Una scelta che, in un continente già provato da inflazione, stagnazione e crisi sociali, appare a molti osservatori come un gesto di miopia politica più che una strategia di lungo periodo. I motivi di perplessità sono molteplici: aumenta l’indebitamento di un’Europa già fragile sul piano economico; sottrae risorse vitali a settori ormai in sofferenza (leggi: industrie); asseconda un clima d’emergenza permanente, come se il continente fosse davvero alla vigilia di un’invasione. E c’è il giustificato timore che buona parte di questi soldi vadano (come già successo) nelle tasche di funzionari ucraini corrotti. Ed è è proprio questa retorica dell’urgenza a risultare particolarmente dissonante. Da mesi, infatti, in vari Paesi europei si parla di forme di leva “volontaria”, iniziative presentate come misure di prudenza, con una narrativa che sfiora l’assurdo: si paventa una Russia capace di proiettare la propria forza militare fino a Lisbona, Parigi o Roma, mentre si racconta che però ha conquistato in tre anni territori limitati. Il paradosso è evidente: si giustifica un colossale programma di riarmo dipingendo un pericolo esistenziale che non trova riscontro nella realtà.

L’ultima occasione

Se davvero potrebbe riaprirsi un tavolo negoziale, non sarà merito dell’Europa, che ormai ha perso ogni centralità diplomatica. Sarà una scelta condizionata: dalla stanchezza americana; dall’impossibilità ucraina di continuare a combattere; dalla necessità di ricollocare Mosca in un quadro geopolitico che eviti la sua definitiva integrazione nel blocco cinese. Per l’Europa resta una sola domanda: saprà trarre una lezione da questa tragedia o continuerà a inseguire la retorica della vittoria fino alla propria irrilevanza? E sarà la NATO così saggia da non trascinarci in una guerra mondiale?

 

Inserito il:01/12/2025 17:40:10
Ultimo aggiornamento:01/12/2025 20:42:19
Condividi su
ARCHIVIO ARTICOLI
nel futuro, archivio
Torna alla home
nel futuro, web magazine di informazione e cultura
Ho letto e accetto le condizioni sulla privacy *
(*obbligatorio)


Questo sito non ti chiede di esprimere il consenso dei cookie perché usiamo solo cookie tecnici e servizi di Google a scopo statistico

Cookie policy | Privacy policy

Associazione Culturale Nel Futuro – Corso Brianza 10/B – 22066 Mariano Comense CO – C.F. 90037120137

yost.technology | 04451716445