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Il mondo occidentale è affetto dall’ “effetto del vincitore”?
di Ruggero Cerizza
In psicologia e in neuroscienze è stato analizzato e studiato come il successo influenzi gli esiti, gli andamenti ed i cambiamenti indotti nel “vincitore”; queste reazioni sono note appunto con il termine “effetto del vincitore”, i cui aspetti positivi e negativi possono essere così sinteticamente puntualizzati:
- il successo, in prima battuta, si manifesta con un senso di appagamento e di rilassatezza, via via che sfuma l’adrenalina generata dalla sfida,
- il successo, poi, rende i vincitori più sicuri di sé e li fa sentire in grado di aumentare le probabilità di affrontare e vincere sfide più difficili;
- spesso ai vincitori non basta vincere, l’istinto è di stravincere che si manifesta in atteggiamenti e comportamenti arroganti financo aggressivi;
- il vincitore, esaltato dal proprio successo, può tendere a sottovalutare un problema o una sfida successivi e, quindi, indurlo, da una parte ad una minore attenzione alla propria “forma” e dall’altra a prendere decisioni avventate o sbagliate.
Questi aspetti hanno indotto alcuni studiosi, ad esempio il neuroscienziato Ian Robertson, ad affermare che il successo è in grado di modellare la mente.
La tesi ambiziosa di questo scritto è che l’ “effetto del vincitore” può essere riscontrato non solo in una persona, come illustrato dagli studiosi, ma anche in una comunità di individui uscita vincitrice da una sfida epocale con un’altra comunità.
In particolare tenterò di dimostrare che il mondo occidentale uscito vincitore nella sfida epocale con il mondo comunista sia stato e sia tuttora affetto dall’ “effetto del vincitore”.
La vittoria e il senso di potenza, se non addirittura di onnipotenza, che ne è derivata ci ha, sicuramente a ragione, inebriati, gonfiati d’orgoglio ed esaltati dall’autostima.
Avevamo battuto il comunismo, il nostro avversario era schiattato senza neanche combattere, la nostra superiorità divenne tale che il nemico implose per manifesta inferiorità. Abbiamo prevalso con il solo confronto dei risultati che lo “spirito occidentale” aveva ottenuto sul campo, grazie a Dio non di battaglia (fatti salvi pochi casi).
Lo spirito incarnato dal modello economico “capitalista”, dal modello politico rappresentato dalla “democrazia occidentale” e dal modello culturale “liberal”, forgiato dagli epigoni del “sessantotto”, è diventato per noi il “punto di arrivo”, nessun modello avrebbe più potuto superare la “perfezione” del nostro. In questo senso la storia sarebbe finita!
La comunità occidentale, convinta che la “sconfitta del nemico” fosse stata propiziata da propri meriti e non conseguente all’acclarata inefficacia del modello concorrente, si è auto referenziata “bella e buona” e quindi anche “giusta”, di conseguenza qualsiasi suo ideale linguaggio, comportamento ed azione non poteva che essere, a sua volta, altro che bello, buono e giusto.
In questo senso mi sento di poter riscontrare che la vittoria può modellare il pensiero anche di comunità di individui, può cioè plasmare la percezione di sé stessa sia al livello della sua classe dirigente nonché a quello della “pubblica opinione”.
Ci siamo beati nel sollievo della fine della guerra fredda e crogiolati nell’autoconvincimento che i principi e i metodi del nostro modello, essendo vincente, fossero i migliori in assoluto e, in quanto tali, auspicabili e desiderabili, addirittura agognabili, da parte di tutti i popoli del mondo.
Dopo aver trascorso ben quarant’anni in uno sforzo continuo, intenso e snervante per il contenimento delle ambizioni espansionistiche del modello economico, politico e sociale “comunista”, non paghi della vittoria, abbiamo desiderato stravincere incaricandoci della missione, di natura quasi messianica, di “esportare la nostra democrazia” ingerendoci in maniera a volte esplicita a volte subdola nelle dinamiche politiche del resto del mondo.
Così facendo, da strenui difensori contro l’aggressivo espansionismo comunista, siamo diventati a nostra volta aggressivi ed arroganti nell’affermare la nostra supremazia, imponendo “todo modo” il nostro modello, facendo leva cioè sulla nostra maggiore forza militare, economica, tecnologica e finanziaria per fiaccare e piegare le resistenze dei più riottosi, giustificandoci con la retorica delle nostre “buone intenzioni”.
Non solo, convinti del nostro status di “migliori”, ci siamo unilateralmente attribuiti il ruolo di “capoclasse” del mondo, dividendolo secondo il nostro infallibile ed insindacabile giudizio tra “buoni” e “cattivi” e quindi:
- punendo i “cattivi” con sanzioni economiche,
- punendo i “più cattivi” con azioni militari di natura poliziesca,
- punendo i “cattivissimi” con azioni di occupazione militare.
Con questo atteggiamento l’unico risultato che abbiamo ottenuto è un’ondata di risentimento, di spirito di rivalsa, di odio e di vendetta che ha creato le condizioni per un processo di coalizione di mezzo mondo contro l’occidente, oggi non più percepito, forse a ragione, come “il più forte” e quindi da temere e riverire.
Oggettivamente nei primi anni novanta dello scorso secolo la comunità occidentale era senza dubbio la più grande, anzi l’unica, “potenza mondiale”. Gli Stati Uniti d’America, gli stati dell’Europa Occidentale ed il Giappone costituivano un blocco assolutamente egemone in tutti gli ambiti del potere.
Questa situazione ha consentito al blocco occidentale di ottenere ancora ulteriori significativi successi: l’annessione degli ex-stati satelliti dell’URSS in Europa Centrale; la direzione unilaterale dell’orientamento degli Organismi Internazionali: ONU, Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, OMS, WTO, G7, OCSE, ecc.; l’affermazione del dollaro come moneta unica per le transazioni internazionali; la diffusione della “way of life” occidentale; l’affermazione dell’inglese come lingua internazionale; il consolidamento di proprie basi militari in ogni angolo del mondo; il controllo delle principali fonti di materie prime mondiali attraverso un modello di colonialismo mascherato da contributo allo sviluppo socio-economico e da aiuto umanitario.
Questi successi, ottenuti peraltro senza avversari di pari categoria, ci hanno ulteriormente rafforzato nella convinzione di essere “invincibili”, inducendoci, a mio avviso, a commettere un’altra grave avventatezza, quella, cioè, di ritenere che l’apertura di un paese al modello di “produzione capitalistico” lo avrebbe inevitabilmente indotto ad adottare anche il modello politico di “democrazia occidentale” e di conseguenza di entrare in maniera naturale nella nostra sfera di influenza e di interessi.
A questa idea è stato associato il mantra della “globalizzazione foriera di pace e prosperità mondiale”.
Il trasferimento, principalmente verso paesi ex-comunisti, di tecnologia e di know-how produttivo che ha caratterizzato questo processo, si è pienamente sviluppato in brevissimo tempo e con la piena ed interessata accettazione da parte dei paesi destinatari principalmente per i seguenti fattori:
- il riconoscimento dell’indubbia superiorità del modello produttivo resa manifesta dalla potenza economica raggiunta dai Paesi che l’avevano storicamente adottato,
- l’interesse dei paesi destinatari a superare velocemente e con investimenti limitati l’arretratezza dei sistemi produttivi lasciata dai regimi comunisti, nonché ad incrementare il tenore di vita ed il benessere delle proprie popolazioni, dando così grande lustro ed autorevolezza ai loro “nuovi” governanti,
- l’interesse dei Paesi trasferenti a “beneficiare” di manodopera a prezzo di saldo di cui i paesi destinatari erano ben provvisti, consentendo alle multinazionali occidentali immediati ed enormi extra-profitti senza necessità di investimenti significativi.
Quello che la superbia e la presunzione, tipiche dell’ “effetto del vincitore”, connesse ad un malcelato suprematismo culturale (quando, sotto-sotto, non etnico) hanno impedito di prevedere è che il trasferimento rapido e massiccio di tecnologia e know-how produttivo, ancorché limitato alle produzioni “labour intensive” e meno specialistiche, sarebbe stato in grado di innescare in quei paesi un velocissimo processo di crescita economica e tecnologica di dimensioni mai viste nella storia.
Questo processo è stato corroborato da diversi fattori, tra i quali quelli che credo più rilevanti, sono:
- il sentimento “non-negativo” verso l’imitazione servile dei prodotti occidentali, anzi la soddisfazione di essere tanto bravi da poterli replicare fedelmente;
- l’atteggiamento di assoluta dedizione al “lavoro” come mezzo per la crescita della persona e della sua comunità;
- una disponibilità di forza lavoro di dimensioni impressionanti;
e ultimo, non certo per importanza, una classe dirigente che è stata sinora in grado di orientare e dirigere efficacemente il processo di sviluppo della propria comunità, coniugando una visione socio-politica “neo-comunista” con il classico modello produttivo capitalistico.
In questo modo si sono sviluppate nuove potenze di livello mondiale ed una serie di “piccole” potenze regionali che sono portate a collaborare tra di loro, nei diversi ambiti del potere, spinti dalla volontà di guadagnarsi una sempre maggiore indipendenza dall’occidente percepito come neo-dominatore e neo-colonialista e che si stanno organizzando in un “blocco orientale” in grado di competere ad armi pari, se non già superiori, con il blocco occidentale.
Non so se con queste scarne considerazioni sono stato in grado di avvalorare, se non di dimostrare, la tesi che il comportamento modellato dall’”effetto del vincitore” è applicabile anche ad una comunità di stati e quindi di individui, personalmente ne sono convinto e, pertanto, come occidentale, orgoglioso di esserlo, vorrei che ritornassimo allo spirito ed ai valori che ci hanno permesso di risultare “vincitori” nei secoli.
L’Occidente deve, a mio avviso, prendere, al più presto atto che, anche a seguito di suoi improvvidi atteggiamenti e comportamenti, oggi non è più nella situazione dei primi anni novanta, non possiamo più permetterci di ragionare da “più forti” e quindi “vincitori certi”, anzi, dobbiamo, il più velocemente possibile, ritornare con i piedi per terra e smettere di vivere sugli allori, perché se non ci ravvediamo corriamo il rischio di ritrovarci presto nei panni del “perdente”.
Le dichiarazioni, gli atteggiamenti ed i comportamenti ostili e belligeranti che sentiamo e vediamo in questi giorni espressi dai governanti occidentali, dai potentati economici e finanziari che li indirizzano da dietro le quinte e dai media cosiddetti “mainstream” che ne sono il megafono, manifestano e lasciano intendere che lo scontro aperto, eventualmente anche militare, con l’"impero del male", esteso oltre alla storica Unione Sovietica alla Cina, Iran, Corea del Nord ed agli altri stati a questi allineati, sia ormai il corso inesorabile degli eventi.
Personalmente non sono assolutamente convinto che il blocco orientale rappresenti oggi una reale minaccia militare per la nostra integrità e che aggredirci sia nel loro attuale interesse, ma non mi sento di escludere che in futuro, anche in reazione a nostri atteggiamenti provocatori, lo possa diventare: mentre invece vedo che la sua potenza economica e la pressione demografica è destinata a diventare molto presto, sempreché non lo sia già, una seria e concreta minaccia per il nostro futuro benessere.
Proprio alla luce di questi due scenari, sempre a mio modestissimo avviso, la strategia “vincente” dovrebbe essere rivolta a disinnescare le eventuali velleità di aggressione, attraverso il potenziamento interno del mondo occidentale lungo le seguenti direttrici principali:
- smettere di ingerirsi negli affari interni di altri stati anche se in presenza di vere o presunte violazioni dei diritti umani e civili, perché questo è il compito e la responsabilità che spetta all’ONU, e se questo non è reso possibile dai suoi attuali meccanismi decisionali farsi parte diligente per adattarli ma non di sostituirci unilateralmente ad essa,
- non tentare di mantenere o ampliare i confini della nostra influenza su altri stati con lo stesso atteggiamento paternalistico, pedagogico, prevaricatore e talvolta predatorio che ci ha contraddistinto nel passato, perché oggi è questo è un approccio controproducente,
- indirizzare le spese militari prevalentemente verso efficaci sistemi di difesa dei confini e dei territori e non verso armamenti di natura offensiva e, nel contempo, ridurre la presenza di truppe occidentali fuori dai nostri territori,
- occuparci di contrastare l’accettazione fideistica di “rivoluzionari” modelli socio-culturali e le tendenze volte a sostituire la sana discussione, anche accesa, tra persone di opinioni contrarie con atteggiamenti di aggressiva e volgare “demonizzazione” uno dell’altro, fenomeni che stanno sfaldando ed indebolendo dall’interno le nostre società e il nostro tipo di democrazia,
- prendere atto che il modello economico mondiale “globalista” si è rilevato un grosso errore, adottare le politiche necessarie a ripararne i danni, a tonificare la nostra struttura industriale ed a impostare relazioni commerciali internazionali più equilibrate,
La mia casalinga ricetta è: smettere di “impicciarsi” nelle questioni interne degli stati nel resto del mondo, rimettere un po’ in sesto la nostra economia, la nostra democrazia, la nostra società e ritrovare uno spirito comune che ci induca a prepararci “come si deve” alle prossime sfide perché, stavolta, il destino potrebbe non esserci più favorevole.