Francisco Bautista - (Mexico, Contemporaneo) - “Nearika” Mexican art
America latina in tempi di Trumpnomics
(Dall’America latina)
di Giorgio Cumo
Nonostante le prime bordate siano già state sparate, spesso via twitter, è ancora presto per definire come la nuova presidenza USA influirà sull'economia latino-americana, anche perché Trump non si fa un dovere di coerenza fra le successive decisioni ed a volte appaiono divergenze fra lui ed i vari ministeri.
Qualche ipotesi si può però cominciare a formulare.
È evidente a tutti, che il Paese più colpito dal nuovo schema di relazioni sarà il Messico, perché ha un 80-90% del proprio export diretto verso gli USA, ed è dunque sensibile ad ogni modifica delle politiche di interscambio, e perché avrà davanti agli occhi, ogni giorno, il mitico muro, costruito per sbarrare la strada ai "bad hombres".
"Messico deve trattarci con giustizia", dice Trump, pensando al deficit commerciale USA-Messico, che lo scorso anno, è stato pari a 63 miliardi di dollari.
Sembra un po’ il parlare del lupo con l'agnello nella favoletta di Fedro, data la disparità di forze.
Trump non ricorda, od ignora, come gli Stati Uniti, dopo aver sgraffignato il Texas al Messico, e dopo breve guerra, fecero sfilare i precursori dei marines nelle alamedas di Città del Messico costringendo i messicani a vendere al pre-potente vicino un terzo del loro territorio per l'equivalente (a valori del 2000) di 18 milioni di dollari. Un buon affare immobiliare.
Andava il lontano anno 1847, ma ai Messicani è rimasto chiaro il concetto di equità, quando ne parlano i vicini del nord.
Trump, avendolo promesso, modificherà in modo a lui favorevole l'accordo Nafta. Nella sua furia iconoclasta sembra disposto a buttare a mare decenni di lavorio diplomatico e trattative commerciali.
Il Nafta non aveva nessuna intenzione benefica, è nato perché gli USA non volevano ritrovarsi ad avere una frontiera di 3.000 Km con un turbolento vicino in continua crisi politica, potenzialmente un narcostato. L'idea era allora creare posti di lavoro in Messico nelle "maquiladoras" delle zone di frontiera, per assemblare componenti per le multinazionali USA.
E dunque, una bella parte del deficit commerciale è dovuto alle proprie aziende USA, che si beneficiano del minor costo della mano d'opera messicana.
Nei prossimi anni Messico appare dunque a rischio instabilità, all'ombra del grande, inutile, muro. Inutile perché non fermerà certo i "bad hombres" e perché pochi ormai sono i Messicani che cercano di entrare negli USA. Arrivano soprattutto dal Centroamerica gli sventurati che cercano di passare la frontiera con gli USA.
Messico servirebbe di più come filtro per bloccare guatemaltechi, honduregni, e salvadoregni e rimandarli ai paesi di origine.
Una politica di collaborazione sembrerebbe più efficiente che non un muro (ma, in fondo, anche la Clinton voleva il muro).
Si può pensare che, avendo Trump definito centrale nel suo programma il recupero dei posti di lavoro, il criterio con cui tratterà i vari Paesi dipenderà dal saldo commerciale di questi con gli Stati Uniti.
Non dovrebbero esserci motivi di attrito con il Brasile, che ha avuto, nel 2016, un saldo commerciale con gli USA leggermente favorevole agli USA.
Logica vorrebbe anche che sia considerato interessante mantenere una buona relazione con il più grande paese latinoamericano che, dopo la poca dignitosa caduta del governo Dilma, succeduto ai governi Lula, si è allontanato dal blocco dei paesi "bolivariani" con cui prima condivideva nostalgie di comunismo ed anti-americanismo.
L'immigrazione irregolare di Brasiliani verso gli USA, notevole negli anni fino al 2005 è oggi irrilevante: anche in questo caso, Messico ha funzionato egregiamente come filtro, ristabilendo nel 2006 l'obbligo di visto per i brasiliani.
Piuttosto, il Brasile sta accompagnando con malcelato interesse l'evolversi della situazione USA-Messico, pensando di poter sostituire alcune esportazioni messicane agli USA e di vedersi aprire i mercati messicani, caso Messico contraccambi, limitando le importazioni dagli USA (mors tua...)
Anche l'Argentina ha un surplus commerciale con gli USA. Nell'anno 2016 è stato pari a circa 4 miliardi di dollari, ma non è un esportatore significativo: invia agli Usa un quarto di quanto esporta il Brasile e la trentesima parte di quanto esporta il Messico.
Anche in questo caso il nuovo governo ha virato verso una economia meno terzomondista. Non ci sono ragioni di tensione fra i due Paesi.
Recentemente, Trump ha dichiarato al presidente peruviano in visita a Washington, avere "un grande problema" con Venezuela, ma non ha fornito dettagli del problema. Nessuno si aspetta qualcosa di più di roboanti dichiarazioni ideologiche, e fra Maduro e Trump può essere un bel duello.
Cile e Perù continueranno a cercare buone relazioni con gli USA perché non hanno attriti significativi ed il mercato USA è importante per loro.
Come gli altri membri della Alleanza del Pacifico (Colombia e Messico), è da prevedere che seguiranno con grande interesse il destino del TPP, da cui Trump ha sganciato gli USA, facendo felice il proprio elettorato, ma in completa incoerenza con il dichiarato obiettivo di contenimento della Cina.
Un TPP anche senza gli USA, o con la Cina a riempire il vuoto, è molto importante per i Paesi latinoamericani della costa del Pacifico.
Quando Trump deve criticare qualcuno, alza l'indice della manuccia in segno di avviso ed ammonimento. È da prevedere che l'indice si alzerà solo per il Messico. E può essere un gran brutto momento.
Gli altri Paesi dell'Area, come il resto del commercio mondiale, saranno colpiti solo in caso di misure protezionistiche. Se ci saranno, e saranno pesanti, sarà però un altro mondo. Per tutti.