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Terzo giorno dell’attacco militare Usa-Iran: la tregua
di Vincenzo Rampolla
Dopo gli attacchi Usa contro i siti nucleari della Repubblica Islamica, la risposta dell’Iran è stata di 10 missili balistici contro la base aerea nel deserto di Al Udeid, in Qatar, a circa 45 km da Doha. Attacco senza morti e feriti, missili tutti intercettati e la base da tempo evacuata. Ecco perché l’Iran l’ha scelta come obiettivo per ricambiare i raid americani.
A seguito delle operazioni militari congiunte durante l’operazione Desert Storm nel 1991, il Qatar e gli Usa avevano concluso un accordo di cooperazione nella difesa, successivamente ampliato. Da qui la costruzione della base aerea di Al Udeid, inaugurata nel 1996 e costata $ 1Mld. Sede dello Us Central Command, è la più grande base Usa del MO e può ospitare 11.000 soldati. Controlla un centinaio di aerei militari, tra velivoli da trasporto e caccia, in ogni caso spostati prima dell’attacco iraniano. Ad Al Udeid, che occupa una superficie di 35 km² e su cui sorgono 250 edifici, hanno base anche la forza aerea del Qatar e la Royal Air Force britannica. Trump aveva visitato la base il 15 maggio, durante un tour in MO che includeva anche tappe in Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Nessuna visita nel Golfo sarebbe completa senza una sosta per rendere omaggio alle persone che mantengono l’America sicura, forte e libera, aveva dichiarato nella prima visita di un Presidente Usa a Al Udeid dal 2003.
Appena chiusa la riunione nella Situation room, lunedì 23 giugno 2025 Trump interviene via Truth social, tutto in maiuscolo: CONGRATULAZIONI MONDO, È TEMPO DI PACE. Ringraziamenti al molto rispettato emiro del Qatar, il gaudio per la mancanza di vittime americane o qatariote e le battute alla fiacca risposta iraniana, con il ringraziamento per aver avvisato: Forse ora l’Iran può procedere verso Pace e Armonia nella regione, e con entusiasmo incoraggerò Israele a fare lo stesso.
La prospettiva di una strategia alla George W. Bush in Asia centrale e MO viene cestinata, traslando comunque l’onere del cambio di Governo sugli iraniani stessi, sul popolo e non su Washington. Trump dal suo primo mandato rinfocola lo slalom sul tema regime change per l’Iran, forte di sondaggi che da decenni indicano come gli americani non vogliano un’altra guerra nella regione e rifiutino l’idea dell’atomica degli ayatollah. Nel 2018 Trump ritirò unilateralmente gli Usa dal Piano d’azione congiunto globale (Jcpoa), l’accordo sul nucleare iraniano voluto da Obama e inondò l’Iran di sanzioni. Non era certo cambio di regime ma il gesto voleva moltiplicare la pressione sulla leadership. Il 2 gennaio 2020 il colpo da maestro: l’assassinio via drone del generale iraniano Qassem Soleimani, storico comandante delle Guardie iraniane della Rivoluzione, escalation deterrente e risposta alle minacce contro il personale americano. Trump aveva però battezzato il suo nuovo mandato con una lettera alla Guida suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, proponendo nuovi negoziati per un accordo nucleare, con una scadenza di 60 giorni. Diplomazia a tutto campo. E oggi, nelle ultime 48 ore, una brevissima cronaca del passato, per chiarirsi le idee. Gli attacchi americani di sabato notte su Natanz, Isfahan e Ford soprattutto e domenica sera 22 giugno 2025 l’ambiguo messaggio trumpiano via social media: Non è politicamente corretto usare il termine “cambio di regime”, ma se l’attuale regime iraniano non è in grado di RENDERE L’IRAN DI NUOVO GRANDE, perché non dovrebbe esserci un cambio di regime???
Alle porte, dietro il sipario, cova a Parigi in un angolo un certo Reza Ciro Pahlavi, figlio maggiore dell’ultimo Scià di Persia, ultra sessantenne, amico di Netanyahu. Chi ricorda il padre deposto dalla rivoluzione nel 1979 e la vedova Fara Diba, 86 anni, la spola tra NewYork, Washington, Parigi e Il Cairo? E oggi, chi conosce Ciro in Iran?